Per creare le condizioni affinché il corpo possa liberarsi al punto tale da riuscire ad assumere una posizione seduta confortevole per un tempo molto lungo, è necessario individuare tutti gli elementi che poi concorrono a far sì che il corpo stesso possa realmente trovare quell’assetto, quella stabilità che gli permette poi di entrare in una dimensione yogica.
Raffigurazione tradizionale di un siddha
Allontaniamo da noi quelle che possono essere le proiezioni di altro tipo e valutiamo principalmente un elemento essenziale che determina la possibilità di raggiungere la posizione seduta: questo è fondamentalmente la libertà mentale. Molte anomalie fisiche, molti disturbi fisici nella posizione seduta sono determinati da stress, da agitazione, da situazioni in cui siamo insofferenti: e questa insofferenza, non palesata su un piano immediatamente mentale, si manifesta in forma indiretta attraverso un disturbo, un disagio fisico nella posizione seduta. In realtà l’acquisizione della posizione seduta non è un’azione che si raggiunge soltanto esercitando il corpo, ma è un’educazione al rapportarsi con sé stessi. L’âsana è una disciplina che, in ogni caso, appartiene al corpo fisico, o comunque utilizza il corpo, quindi la struttura fisica del corpo; ma, durante la pratica di âsana l’atteggiamento mentale diventa l’elemento fondamentale perché, anche se voi non acquisite l’agilità necessaria per fare la posizione del loto, per esempio, e poter quindi stare in questa posizione per lungo tempo, quello che si dovrebbe invece acquisire è la disponibilità psicofisica a stare immobili in una posizione seduta qualsiasi (come per esempio siddhâsana, sukhâsana o qualunque altra posizione); ma in realtà non è la posizione in sé che determina l’abilità, ma è la capacità di restare immobili perdendo il rapporto con il corpo fisico. Cioè: l’âsana è una pratica che dovrebbe permettere allo yogin di “cancellare” il corpo.
Voi sapete che il corpo ha una grande influenza sul piano mentale: l’invadenza del corpo fisico sul piano mentale è qualcosa di imponente. La mente dell’uomo è molto condizionata dalla forma del suo corpo, il corpo fisico influenza pesantemente la condizione della persona. Ma l’âsana, anziché esaltare la potenza del corpo fisico, dovrebbe ridurre l’invadenza del corpo fisico sulla realtà interiore, altrimenti sarebbe esattamente un lavoro opposto a quello che si cerca di raggiungere. Come accade questo? Con l’abilità a restare immobili nella posizione; perché l’immobilità nella posizione produce un cambiamento nel rapporto con il proprio corpo. Stando immobili, si perde il rapporto con il corpo fisico: il corpo non trasmette più nessuna sensazione, nessun tipo di richiamo. Però è chiaro che se c’è un dolore, se c’è un fastidio, un disagio fisico, questo richiama la mente all’attenzione sul corpo, e allora diventa una lotta interna.
Il “progetto” dell’âsana è proprio questo: arrivare a perdere la relazione col corpo fisico. Perché dobbiamo perdere questa relazione? Perché altrimenti gli altri stati non si manifestano: se c’è un problema fisico che richiama la mente, noi siamo condizionati da questo fenomeno, che invade la nostra realtà mentale al punto tale da non riuscire a fare nient’altro che combattere questo impedimento, questo fastidio. Avete mai sperimentato un momento di immobilità in una posizione statica dove realmente il corpo è come sciolto, dove il corpo non produce alcun tipo di sensazione? Ebbene, in quel momento siete al di là del corpo fisico: questo è il progetto che la pratica di âsana propone a chi pratica, esattamente l’opposto di ciò che molti pensano, che invece l’âsana debba esaltare il corpo fisico.
Occorre quindi abituarsi a usare le posizioni statiche perché la posizione statica produce questo fenomeno, questa magia, direi quasi un processo alchemico, che fa sì che l’individuo perda la relazione con il corpo fisico. Come quando voi avete un arto ingessato, dopo un po’ non sentite più l’arto, rispetto all’arto che si muove; quello immobile non manda più informazioni. Più rimaniamo immobili e più si consuma questa presenza del corpo fisico nella nostra realtà interiore. Lo yoga ha escogitato questo sistema: l’immobilità come strumento per superare il condizionamento del corpo; l’immobilità come mezzo, quindi l’allenamento all’immobilità. è chiaro che c’è un duplice effetto: questo di cui vi parlo è il punto di arrivo: âsana come elemento di trascendenza del corpo fisico.
L’immobilità è lo strumento che consente
di superare il condizionamento del corpo
Per far sì che il corpo energetico, o qualunque altra cosa, possa apparire, è necessario che si consumi il rapporto con il corpo fisico, che la fiamma che ci collega al nostro corpo si spenga, perché altrimenti non succede nient’altro, altrimenti tutti i discorsi che riguardano il piano energetico, il prâna, sono tutte elaborazioni mentali, sono soltanto processi immaginari. È necessario entrare in un rapporto esperienziale con il corpo energetico, ma perché questo succeda bisogna spegnere il corpo fisico. Come farlo? Con la pratica di âsana.
Pensate invece come l’âsana viene ad essere interpretato solitamente: come l’esaltazione del corpo fisico, un’assurdità volta esclusivamente a soddisfare l’esistenza commerciale dell’insegnamento! Esaltiamo le funzioni del corpo fisico, esaltiamo la pratica fisica per raggiungere una forma di esibizione, per far sì che lo yoga possa essere accettato dalla massa… Sarebbe già molto positivo se questa fosse un’informazione consapevole, perché se siamo consapevoli di fare una operazione commerciale e che l’informazione dello yoga non passa attraverso questo tipo di proposta, allora i danni sono meno gravi: perché agli allievi che invece vogliono fare una ricerca più seria di quella puramente esteriore, noi sappiamo cosa dire. E siccome io penso che un insegnante di yoga debba avere come obiettivo principale l’offerta di una informazione seria, allora è necessario che queste cose siano dette e confrontate; è necessario che noi ci confrontiamo su queste tematiche, che sono essenziali. Noi potremmo parlare di tecniche, di agilità del corpo, ma questi non sono gli elementi fondamentali: l’elemento fondamentale è raggiungere la posizione seduta.
Nella Hathayogapradîpikâ, nei primi versi è detto chiaramente: lo hathayoga è al servizio del râjayoga. Noi siamo composti di vari corpi. Secondo il Vedânta siamo composti di annamaya-kosha, prânamaya-kosha, manomaya-kosha, vijñânamaya-kosha e ânandamaya-kosha; queste sono le cinque “stratificazioni” che uno yogin deve sperimentare. C’è una grossa differenza tra l’esperienza e la concettualità: una informazione concettuale è un qualcosa che non ha nessuna importanza nello yoga, l’informazione concettuale dovrebbe essere l’espressione di un’esperienza. Purtroppo però succede che noi ribaltiamo completamente il discorso: acquisiamo delle informazione concettuali e poi andiamo a ricercare le esperienze in base all’informazione concettuale. E allora succede che noi lavoriamo molto con l’immaginazione e non facciamo altro che sviare il percorso. Infatti, se noi ci aspettiamo qualche cosa che abbiamo ideato e la andiamo a cercare, noi la troveremo, ma è l’immaginazione che influenza la nostra realtà interiore, come succede sempre: se noi immaginiamo una scena possiamo vivere delle sensazioni, belle o brutte, subendole e magari cadendo in uno stato depressivo o di agitazione capace di produrre dei fenomeni biochimici particolari nel corpo. Il pericolo nello yoga è proprio questo: il rapporto con l’immaginazione che determina delle sensazioni che voi pensate siano reali, ma invece sono solo ed esclusivamente sensazioni che provengono da proiezioni immaginarie. La problematica dell’insegnamento dello yoga in Occidente sta proprio in questo: l’occidentale è riempito di processi immaginari di fronte allo yoga perché viene meno la pratica: perché l’occidentale non ha tempo di praticare, e allora si nutre di immaginazione, si nutre di fantasia, che non ha niente a che vedere con la realtà. Mentre in India immaginate il contesto in cui un discepolo si avvicina allo yoga, senza sapere assolutamente nulla ma solo perché ha incontrato un maestro che gli è piaciuto e se ne è innamorato al punto tale da dire: “lascio tutto e seguo questo maestro”. Senza chiedersi assolutamente niente, perché l’India è un paese spirituale e quindi gli indiani hanno all’interno questa fiamma di spiritualità: essi aspettano tutti un maestro da incontrare nella loro vita per poter dare avvio alla loro vita spirituale. Quando lo incontrano lo seguono e non pensano ad altro. Il maestro dà all’allievo delle informazioni di vita, di alimentazione, riguardo ai rapporti con gli altri, alla pratica, gli offre tutti gli stimoli per sviluppare l’osservazione di sé. Dal momento in cui l’individuo ha sviluppato l’osservazione di sé, sviluppa anche la sensibilità, l’accortezza, la percezione, che diventa sempre più sottile e sempre più mirata, e a un certo punto scopre delle cose. La scoperta di certi fenomeni lo mette in condizione di andare ad affrontare questa tematica con il proprio maestro, il quale gli dà delle risposte adeguate all’esperienza che l’allievo ha fatto.
POSIZIONI SEDUTE | |||
![]() |
![]() |
![]() |
![]() |
padma-âsana | sukha-âsana | vajra-âsana | siddha-âsana |
Tutto questo in Occidente non esiste. Noi in Occidente leggiamo un libro e immaginiamo la situazione che dovrebbe svilupparsi rispetto a un certo tipo di esperienza che andremo a fare, si mette cioè il carro davanti ai buoi. L’esperienza diventa falsata da un’attesa, già ci si predispone per affrontare un’esperienza, siamo già condizionati ancor prima di fare l’esperienza e questo è un elemento di difficoltà fondamentale. Senza poi parlare di certi àmbiti di insegnamento dove tutto è centrato sull’immaginazione, sui processi immaginari voluti, richiesti. Si costruisce tutta la pratica sull’immaginazione: immaginiamo questa cosa e quest’altra… quindi se l’allievo ha una capacità di immaginazione sufficientemente sviluppata, all’immaginazione subentrerà la sensazione, subentra quindi un fenomeno che probabilmente è legato a tutto un processo di proiezioni mentali.
Il percorso invece più saggio e lineare è quello di praticare, ricavare l’esperienza e confrontarla. Un lavoro dunque esperienziale, considerando che lo yogin è un ricercatore e come tale deve avere la mentalità di colui che sviluppa la capacità di fare l’esperienza: fare, creare un’azione e ascoltare ciò che ne viene fuori. Questa è indubbiamente un’informazione di carattere generale ma fondamentale. È importante dirlo per frenare in voi qualsiasi tipo di pulsione legata a delle proiezioni immaginarie. Riuscire ad essere semplici, vuoti, non aspettarsi nulla ma accettare l’esperienza per quella che è, sviluppando consapevolezza, attenzione, partecipazione, coinvolgimento. Questi sono gli elementi che dovrebbero essere presenti nel momento in cui si sviluppa un’esperienza, perché da questi elementi fondamentali voi potete arrivare alla conoscenza. Noi abbiamo la possibilità di scoprire tutto, perché tutto è in noi. Non dobbiamo pensare che cambiando il nostro corpo in qualche modo noi comprenderemo la verità, perché la verità c’è già, noi siamo già realizzati.
Antonio Nuzzo