Appunti di Consapevolezza

La pratica dello Yoga conduce alla scoperta di uno stato interiore che appartiene a noi tutti, e a tutti accessibile, ma schermato alla nostra consapevolezza da una serie di abitudini e di processi mentali, di automatismi che ne rendono ardua la percezione diretta.

Il Raja Yoga ci guida verso la percezione della nostra coscienza ai suoi vari livelli, ci aiuta a capire com’è organizzata, come schemi e abitudini si rinnovino di continuo e come sia possibile spezzare tale meccanismo; come far sì che schemi e abitudini si estinguano nel silenzio, come percepire e accogliere, infine, ciò che rimane quando tutto questo accade.

Questa comprensione diretta, non mediata dalla parola ma affidata all’esperienza, avviene coltivando la consapevolezza, la capacità di “mettersi in relazione e di ascoltare”, di stabilire una relazione stabile e continuativa con il corpo, con il respiro, con le sensazioni e i pensieri. Una comprensione che ci svelerà come non sia il movimento a liberarci, ma la qualità della relazione che intratteniamo con esso.

Il termine “yoga” definisce uno stato interiore, uno stato di unità, l’essere Uno.

Il Raja Yoga si occupa della domanda essenziale che abita ogni essere umano. Del mistero del vivere, del mistero dell’essere coscienti. Del “chi” siamo e “come” siamo.

Secondo la tradizione indiana, a nessuna di queste questioni è possibile rispondere veramente attraverso una conoscenza libresca, il pensiero razionale o una qualsivoglia attività intellettuale. Pensiero e conoscenza sono facoltà straordinarie, il cui campo di applicazione tuttavia non raggiunge la dimensione dell’Essere. La descrizione di una cosa non è, e non sarà mai, “la cosa”.

Pratica

La pratica corporea è l’elemento che caratterizza molte delle differenti vie che fanno parte dello Yoga. Nel Raja Yoga corpo e mente compongono un unico insieme, inseparabile e coerente. Il corpo manifesta gli schemi che la mente adotta così come la condizione mentale: agitazione, calma, dispersione. Al tempo stesso, la mente può essere informata e riplasmata dalla qualità dei gesti prodotti dal corpo durante una sequenza di Yoga.

In sintesi, il fine della pratica è il recupero di gradi di libertà: nella configurazione posturale, nella mobilità articolare, nell’elasticità muscolare, nella pulsazione respiratoria. Come conseguenza, l’energia “trattenuta” è resa disponibile per un processo di osservazione e apprendimento rivolto alla propria natura essenziale.

La funzione di Asana e di Pranayama va quindi ben oltre l’esecuzione di posture e tecniche respiratorie o mentali. Attraverso l’ascolto e la consapevolezza, la pratica si rivela un percorso propedeutico alla “meditazione”, quel particolare rapporto di osservazione e di presenza che consente di “sapere” circa il proprio sentimento d’essere.

La via dello Yoga: Asana è l’inizio del percorso

È importante comprendere che col termine Yoga si intende fare riferimento a uno stato interiore, a un modo d’essere, piuttosto che a tecniche o posture del corpo che il praticante debba in qualche modo copiare.

La nostra attività mentale quotidiana, così come la nostra coscienza ordinaria, è in buona parte occupata da pensieri dedicati al passato e al futuro. Di conseguenza, impegnati come siamo nel ricordare esperienze ed eventi o nel proiettarci verso il futuro, prossimo o lontano che sia, rischiamo di non concedere uno “spazio” adeguato al momento presente.

La sfida che sta al cuore della pratica del Raja Yoga è proprio quella di conferire realtà al presente, di imparare a procedere tenendo conto di “ciò che è”, di ciò che accade di momento in momento.

Asana è l’inizio del percorso. Il termine sanscrito “asana” viene solitamente tradotto con “postura” o “posizione”.

In senso più letterale asana significa “essere così”, non tanto in riferimento alla forma esteriore, alla postura intesa come semplice posizione del corpo, ma piuttosto al modo con cui la postura è da noi abitata, vissuta. Nello Yoga, il corpo è parte indissociabile dalla propria presa di coscienza.

Di conseguenza possiamo dire che non è il movimento in sé, per quanto gratificante, a liberare, quanto la capacità di ascolto che lo accompagna. Il nostro corpo riflette sempre, in modo tangibile, la nostra organizzazione interiore e le nostre capacità di consapevolezza.

Il movimento e le posture rendono manifesta l’esistenza nel nostro corpo di zone chiare, quelle che leggiamo senza difficoltà, e di zone oscure, che non riusciamo a raggiungere facilmente mediante un’indagine cosciente. Di norma, tendiamo a muoverci e praticare utilizzando prevalentemente le nostre parti chiare, ignorando o utilizzando solo in parte le aree corporali che avvertiamo con fatica o che non arriviamo più a localizzare.

Uno dei primi compiti di Asana è dunque quello di rendere evidenti gli effetti della consapevolezza sulla nostra struttura nervosa e muscolare, consentendoci inoltre di osservare come tali effetti si organizzino in modi differenti in relazione al livello di ascolto in  atto.

Asana

Lo Yoga è un percorso di conoscenza di sé, di trasformazione interiore. Conoscere se stessi, interrogarsi, richiede capacità di ascolto.

Ascoltare è un processo che si apprende. Si impara a conferire stabilità, continuità, profondità all’ascolto, diversamente da quanto avviene nelle condizioni ordinarie in cui risulta difficile soffermarsi su una particolare situazione o una sensazione tanto da poterle percepire e arrivare a esserne consapevoli in maniera significativa.

Asana è la prima fase di questa educazione. Questo termine sanscrito è di solito tradotto con “postura” per indicare le varie posizioni che si assumono durante una pratica di Yoga. Tuttavia, il modo in cui Patanjali – l’autore degli Yoga Sutra, testo fondamentale di questa antica disciplina – definisce asana ci rimanda alla relazione che intratteniamo con il corpo, con i muscoli e le sensazioni, piuttosto che alle “forme” che possiamo assumere.

Siamo invitati a stabilire una particolare qualità di relazione con il nostro corpo, qualunque sia la postura che stiamo eseguendo.

Asana è essere fermamente stabili in uno spazio di ben-essere (Stirasukha asanam, Yoga Sutra II 46 ).

Due i termini che compongono questo aforisma di Patanjali:

– Stira indica una condizione di stabilità resa possibile da un ascolto privo di irrequietezza e che non mira a ottenere qualche risultato in breve tempo; una condizione in cui si “abita” in modo pieno il proprio corpo.

– Sukha rinvia al sentimento che accompagna la nostra azione quando è rilassata, a un senso di giustezza e di contentezza, un sentirsi a proprio agio.

I due termini in sanscrito sono uniti per comporre una sola parola, al fine di indicare un modo d’essere del praticante che non cerca di perseguire ora uno ora l’altro aspetto, ma trova una qualità di relazione e di ascolto che fonde i due termini insieme e li rende operanti all’unisono, nello stesso tempo.

Durante la pratica di Yoga le forme cambiano, le posizioni si succedono, ma la qualità della presenza è il filo conduttore che tutto unisce e permette a ognuno di scoprire, in modo personale e diretto, come non sia il movimento a operare la trasformazione interiore, bensì la qualità dell’ascolto che lo accompagna.

Ascolto e consapevolezza

Nel Raja Yoga la pratica si rivela un campo di apprendimento.

La qualità degli atti eseguiti nel corso della pratica rispecchia la nostra condizione interiore e mentale. Quando siamo inquieti, agitati, quando ci sentiamo instabili, i nostri gesti inevitabilmente palesano questa condizione nervosa; se siamo invece centrati e in grado di intrattenere una relazione amichevole con le sensazioni che arrivano ai nostri centri nervosi, i nostri muscoli esprimono tale stato. In base alle risposte muscolari agli stimoli esterni, come pure a quanto avviene in noi, abbiamo modo di riconoscere lo stato interiore che a queste risposte corrisponde.

Di fatto, l’apprendimento passa attraverso l’osservazione e l’ascolto di una mente pacificata. Come ci sperimentiamo nei momenti in cui siamo liberi dal moto inquieto della mente? Come questo “essere altro”, questo particolare silenzio, riverbera sul corpo e sull’organizzazione motoria? Come cambia il modo di compiere gesti, il tono muscolare attraverso il quale il gesto prende forma?

Si impara ad ascoltare ascoltando. Si scopre che il nostro ascolto ha diverse gradazioni: quando per esempio è alterato da aspettative o desideri, il nostro ascolto è sterile. Frequentemente si ascolta in modo frettoloso, ritenendo di conoscere già l’evento osservato, e così si rimane in superficie.

Quando però l’ascolto arriva in profondità, allora si vede, c’è riconoscimento. E si diviene consapevoli.

La consapevolezza porta a un riassetto. E non c’è sforzo di volontà in questo.

Parti del nostro corpo escluse o poco partecipi al movimento o alle posture tornano in gioco, divengono attive.

Quando si diventa coscienti dell’intima concatenazione che caratterizza gli eventi corporei, ci apriamo a una visione più ampia, che supera i limiti della percezione ordinaria, inevitabilmente parziale.

Verso la Meditazione

La parola “Yoga” indica uno stato, uno stato fondamentale della coscienza. Non è un percorso che conduce da un luogo a un altro, e neppure una ricerca di benessere. È la possibilità di essere consapevoli di essere vivi e di come lo siamo. La possibilità di sentirsi espressione di una realtà indivisa.

La pratica di Yoga si fonda sull’Osservazione e sul Cambiamento. Possiamo osservare come la nostra coscienza sia modellata dal reiterarsi di convincimenti e abitudini così come da modelli di comportamento; possiamo osservare come la nostra libertà interiore sia informata e delimitata dall’idea che abbiamo di noi stessi. Questo sentimento d’essere, l’identificazione con il nostro particolare schema, non è immutabile: in particolari condizioni di ascolto che si attivano durante la pratica e la meditazione, l’idea di sé si rivela plastica, rinnovabile.

La meditazione è dunque un percorso di osservazione e di apprendimento dedicato al nostro senso d’esistere. Per potersi volgere verso ciò che essenzialmente siamo è fondamentale poter ascoltare e al contempo non avere idee precostituite. La pratica rivela inoltre l’importanza di non essere sempre ingombrati dall’attività che continuamente occupa la nostra mente: essa ostacola sia l’ascolto sia l’osservazione.

L’apprendimento meditativo inizia quando comprendiamo come dimorare in noi stessi. Quando scopriamo che è possibile rimanere stabili, non perdersi, pur nel variare dei contenuti mentali. Quando riconosciamo che non si tratta di sospendere l’attività della mente, ma ‘solo’ di non esserne sopraffatti.

Nel corso della sua maturazione, l’ascolto meditativo conduce a un’importante scoperta: i pensieri non vengono sedati, semplicemente si raggiunge un nuovo piano di consapevolezza che non necessita più dell’irrequietezza ordinaria. E diviene chiaro che la meditazione è già l’espressione della realtà indivisa e non una via per avvicinarla.

Dopo anni di pratica qualcosa accade. L’urgenza di praticare si manifesta nella vita quotidiano. Si porta la pratica al di là del tappetino. La pratica diventa la vita quotidiana. Quel passaggio della pratica da una fase sperimentale, di esitazioni, fermate e riprese, a una fase in cui essa diventa necessità vitale, fino ad assumere un carattere prioritario è il vero dono dello yoga.

Questa particolare urgenza cresce gradualmente, appare come lampi durante la giornata, in parte, a nostra insaputa. A volte la percepiamo con molta chiarezza questa vitale impellenza, ma basta poco per farla vibrare e ricordarci che è sempre presente, ben diversa da quell’entusiasmo iniziale che andava e veniva, sempre pronto a cedere il posto allo scoraggiamento o alle vecchie abitudini.L’urgenza di cui parlo è la crescente attenzione e cura per la pratica individuale quotidiana. È la nostra vita che chiede di essere osservata dalla pratica. Comincia così a venir meno l’idea della pratica come momento speciale, sostanzialmente separato dal resto della vita, che per parte sua continua fluire secondo abitudini mentali, valori, convinzioni, reattività emotive e convulsioni varie che sono osservate soltanto se si affacciano durante la meditazione formale. Ma, quando la consapevolezza comincia a risvegliarsi nel fitto delle nostre giornate, ci accorgiamo che lo spazio di osservazione è molto più ampio di quanto credevamo e che, inoltre, la pratica che si risveglia durante le nostre giornate, può divenire lo strumento per eccellenza di ciò che abbiamo solo intravisto durante la pratica sul tappetino.Insomma trovo che questa urgenza di praticare compare in quel momento in cui accade il passaggio da una pratica episodica fine a se stessa ad una pratica come ricerca per la conoscenza e la consapevolezza di Sé.

Le volte che ci svegliamo a questo dono che la pratica ci fa, emerge con forza questa urgenza di fermarci, sederci e praticare nel momento presente. Qualcosa è cambiato: intuiamo l’amabilità e la preziosità profonda della vita, al di là di tutta la gioia e la sofferenza. Accade così che la pratica diventa urgente, e più diventa urgente, più si attenua la nostra inclinazione all’insoddisfazione. Tutto diventa più facile: esserci per gli altri, esserci per noi stessi, esserci per la pratica è lasciare andare l’attaccamento.

L’ARTE DI MEDITARE

Lo yoga non è una tecnica, ma uno stato. Uno stato di accoglienza e di osservazione presente e consapevole. Un mezzo che attiva un processo per il manifestarsi dello stato meditativo. La meditazione non si fa, accade. La maggior parte di noi inizia un percorso meditativo in cerca di pace. Ma ben presto ci accorgiamo che quello con cui entriamo in contatto è il caos della nostra mente e la ristrettezza del nostro cuore. La pace non è la quiete, è piuttosto l’accoglienza dell’irriquietezza.La pratica della consapevolezza insegna a stare, a entrare in intimità con ciò che vi accade. L’intimità della meditazione è contatto con il tessuto dell’esperienza, con la percezione diretta e non mediata dalle reazioni della mente di quanto accade, del suo impatto su di noi. Questa giusta vicinaza ci permette di arrivare non più ad una reazione ma a una risposta.

Essere presenti significa essere presenti al proprio io come a un oggetto di studio.La presenza è riconoscere quello che c’è,, riconoscere la calma, riconoscere il movimento dei pensieri, non preferire la calma al movimento dei pensieri, non scegliere.Il cambiamento inizia proprio da qui, ora.Il cambiamento inizia accogliendo se stessi, la nostra incompiutezza, la nostra mancanza, cercando di non migliorarsi, di non cambiarsi, aspettando, osservando le cose cambiare.

Meditare è innanzitutto stare fermi; sedersi e seguire umilmente il respiro, accogliere in silenzio, conoscere senza pensare. Meditare è seguire i movimenti della nostra mente smettendo di affaccendati in azioni, pensieri, preoccupazioni per il futuro, ricordi del passato. È insomma stare dentro noi stessi, dentro tutto ciò che ci attraversa, dentro tutto ciò che siamo in quel momento, consapevolmente.

Lo yoga non è piegarsi in due o diventare più buoni, ma un mezzo, un supporto stabile per l’osservazione e la conoscenza di sé, della propria realtà esistenziale, ma non per doverla cambiare, ma per osservarla così com’è.

Solo quello che è può essere trasformato e non quello che vorremmo che fosse.Per questo il corpo diventa il punto di partenza. Siamo qui, ora, nel nostro corpo. Il contenimento del complesso mentale parte dell’ascolto del respiro nel corpo. Lo yoga è un mezzo per tornare a noi.

Corpo, mente, respiro. La mente non si può fermare, è nella natura della mente pensare. Il cuore batte, la mente pesa, analizza, crea. Poi c’è la coscienza che osserva immobile. L’unica cosa che possiamo fare è evitare la confusione tra coscienza e realtà, tra Purusa (pura coscienza, il testimone immobile) e la Prakrti (realtà, pensieri, sensi, emozioni). La sofferenza è la confusione si crea quando ci identifichiamo con la nostra mente, pensieri, emozioni etc…Il primo mezzo che abbiamo è il corpo.

Tornare al corpo, qui ora. Sentirlo, viverlo. Poi abbiamo il respiro. Sentire il respiro nel corpo. L’aria che entra e l’aria che esce. Osservo, come un testimone immobile. I pensieri le emozioni, nascono, mi attraversano e scivolano via. Se la mente si agita, si distrae, un pensiero, un rumore, un emozione, torno al respiro nel corpo.La meditazione non è una tecnica, ma uno stato.

La meditazione non si fa, accade. La meditazione emerge quando tutto il resto si ferma, si mette da parte. Con la pratica si toglie il velo che copre la luce. Non si scopre nulla nulla di nuovo, non si arriva da nessuna parte, emerge ciò che già è presente in noi. Immobile, sempre lì, qualsiasi cosa ci accada nella vita. La meditazione è sentire pienamente ciò che c’è, non è sentire meno, diventare impassibili, ma vivere pienamente tutto ciò che ci accade, è rendersi vulnerabili. Viversi. Respirararsi. Qui, ora.

Attraverso forme semplici del corpo si arriva alla immobilità della reazione del complesso mentale. Quando la mente si posa immobile sul flusso di aria che entra ed esce dal corpo immobile il mentale non disperde più. Per questo le posizioni, Asana, non diventano forme da copiare, ma un mezzo per osservare il contenuto, osservare noi stessi, non essere un’altra cosa. La cosa più difficile è fare nostra la posizione, con cura, con precisione, non tirare, non spingere, non forzare. Prendere una forma vera (satya) che ci corrisponda senza forzare (aimsha) per arrivare in una posizione comoda (stira), stabile (suca) nella quale non siamo più attratti dagli opposti (raga e dvesa). Da qui accade il respiro (pranayama), il mentale non disperde (pratyahara), la coscienza si posa immobile (dharana) e non disperde più; la meditazione emerge (dhyana). Poi forse accade che la coscienza osserva se stessa (samadhi).Lo stato di meditazione, di unione, di integrità, lo stato di non dualità, di yoga, si produce grazie all’arresto della dispersione mentale l’arresto. Yoga città vrtti nirodha

LO YOGA CHE PRATICO E CHE INSEGNO : il RAJA YOGA.

Gli yoga Sutra di patanjali, ispirano la nostra pratica e mostrano la via da seguire, indicano l’essenziale. È importante sapere perché pratichiamo, capire le motivazioni e le ragioni della pratica. Perché assumiamo le posture? Perché lavoriamo sulla respirazione? Non si pratica lo Yoga per sé stesso. Lo Yoga è un mezzo, non lo scopo. Qual è allora il suo obiettivo? La prima cosa che i testi insegnano è che lo Yoga riguarda uno stato, non la forma delle cose. Capire questo essenziale. Lo Yoga non è riconducibile a una tecnica o a un metodo. Come possiamo sperimentare uno stato? Di certo non lo possiamo pensare. Uno stato non si pensa. Lo si vive. E come è possibile trasmetterlo?

L’insegnamento dello Yoga, a differenza di altri tipi di insegnamento, non si impara attraverso un accumulo teorico di sapere, di nozioni, ma attraverso la comprensione diretta. Ogni individuo vive un’esperienza differente. Si tratta di trasmettere, di creare le condizioni perché si possa sperimentare uno stato di coscienza e, allo stesso tempo, di creare le condizioni perché ciascuno possa fare questa esperienza a partire da sé. Non esistono metodi, sistemi validi per tutti. Ecco quello che i Sutra ci insegnano. E aggiungono che tale stato di unità, lo Yoga, si presenta spontaneamente quando si creano le condizioni adatte al suo manifestarsi. È fondamentale comprendere questo aspetto: lo Yoga non è una cosa che si può acquisire, che si può trasmettere, si possono soltanto creare le condizioni per riceverlo.

Il mezzo è l’Hatha yoga che ha la funzione di eliminare gli ostacoli affinché lo stato di yoga, lo stato di equilibrio, possa prodursi spontaneamente. E patanjali precisa che la condizione essenziale affinché ciò avvenga è la stabilità mentale. Il ruolo della pratica e dunque quello di calmare la mente, di operare alla sua integrazione.

Y.S.I.2 yoga chitta vrtti nirodha = quando la mente stabile lo stato di yoga si produce.

Così recita uno dei più citati Sutra di patanjali. Abbiamo un corpo e, in grandissima parte, e se funziona in modo autonomo dalla nostra volontà. Nel nostro organismo esiste un meraviglioso sistema vegetativo che coordina e regola tutte le nostre funzioni. Il ritmo del corpo è estremamente lento e vale la pena ribadirlo indipendente dalla nostra volontà. In questo processo noi non rivestiamo alcun ruolo: il funzionamento mentale è prevalentemente superficiale, stimolato dai sensi della memoria. Quello che vediamo, quello che sentiamo, la percezione, attivalamemoria e sotto l’influenza di quest’ultima si proietta nell’azione e nel pensiero. Questa modalità del pensiero è basata su automatismi che hanno la loro origine nel passato e che sono di una rapidità estrema punto c’è dunque discordanza di ritmo tra il funzionamento mentale quello corporeo. Questa disarmonia è alla base di ciò che oggi definiamo problemi psicosomatici. Numerose patologie molti problemi della sfera della relazione che tutti conosciamo originano da questo squilibrio. I testi dicono perché si producono stato di equilibrio bisogna integrare la mente libera libera dal suo movimento di dispersione punto la coscienza mentale superficiale virgole firmerà, si ricostituisce all’istante su ogni nuovo oggetto di interesse. Questa dispersione, questa confusione mentale, deve essere arrestata. È utile comprendere che è stabilita non vuol dire inibizione punto stabilizzare la mente, Nel senso in cui lo intendono i testi, vuol dire liberare la mente dalla sua dipendenza dagli accadimenti, dalle cose. Come si può interrompere questo movimento di dispersione? Noi andiamo a partire dalle informazioni che ci vengono fornite dai sensi. La memoria è risvegliata perché vediamo, perché sentiamo punto dalle percezioni trae origine l’ordinamento del pensiero che ha la sua fonte nel passato e inibisce la nostra capacità di vivere il presente. La nostra relazione col passato è una relazione che si basa sulla memoria. Quella con il futuro si stabilisce tramite una proiezione, malavita, lato del vivere, non può che svolgersi nel presente. Il fatto di rendere la mente stabile, di integrarla, di unificare corpo e mente, è un evento che cambia il nostro modo di vivere. La nostra salute è la nostra capacità di comprensione migliorano. Aumenta la nostra apertura nei confronti del mondo, la nostra disponibilità verso gli altri punto nasce in noi una coscienza più profonda, una relazione totale con le cose.

Yoga è uno stato, non una tecnica, non una forma. Per sperimentare questo stato bisogna che la mente si è integrata con l’insieme delle funzioni mentali, con il ritmo del corpo. Affinché la mente non sia più un ostacolo, finché non si disperda più, affinché non continui più il proprio movimento ripetitivo e meccanico, senza creatività ne libertà, la si deve integrare mettendolo in relazione con il corpo. Questo è appunto la pratica non consiste nel procedere da postura e facili verso posture difficili, ma nell’approfondire indefinitamente la coscienza del corpo. Per praticare ci si deve riferire ad alcuni grandi principi che servono a sviluppare la coscienza del corpo e calmare la mente. Uno di questi chiede di essere coscienti, durante le posture, della posizione del corpo nello spazio. Dobbiamo percepire che il centro di gravità di queste posture diverso per ognuna di esse punto se si rispetta il centro di gravità, l’assunzione della postura e facilitata considerevolmente. È bene avere coscienza del peso corporeo e deluso il propria t’ho dei muscoli. Questi non fanno che contrastare il peso punto per stare bene naso ma, per essere comodi, bisogna che le catene muscolari si stabilizzano intorno all’asse posturale, con pensando si, quindi, senza sforzo. In Asana cerchiamo l’equilibrio psichico, per questo ci si rivolge al corpo. L’unità tra i ritmi della mente quelli naturali più lenti del corpo determina uno stato di equilibrio. Da principio stabiliamo una relazione tra mente corpo. Le linee direttrici di asana vanno in questa direzione. Non è solo il corpo fa scaturire la calma della mente e soprattutto la coscienza del corpo, la relazione tra la mente e il corpo. Il naso non si segue il corpo, non la mente punto deciso un obiettivo, si pratica vivendo l’esperienza del momento. Si pratica in funzione delle informazioni che si ricevono dal corpo.

L’equilibrio si situa tra due contrari. Non si può trovare l’equilibrio seguendo sempre la stessa direzione punto bisogna dunque passare attraverso il corpo. Inazone esistono anche altri principi che vanno nello stesso senso rispetto agli spazi punto casa me la sospensione di ogni movimento in una particolare posizione. Un altro principio importante nasona e quello dell’immobilità. Non come la intendiamo in rapporto al movimento, ma in mobilità completa. In Asana si va dal movimento verso l’immobilità, dalla periferia al centro. Questa immobilità richiede una buona preparazione. Immobilità è sospensione di ogni movimento mentale respiratorio muscolare. Quando l’immobilità è assoluta allora siamo in Asana. Quando Asana ha prodotto i suoi effetti quando si esce da questa agevole immobilità, da questo senso di benessere allora si avverte il desiderio di una relazione esclusiva con qualcosa di sottile: il flusso dell’aria. Entriamo in relazione esclusiva con il nostro centro. La respirazione naturale riflette il ritmo del corpo. Questa esperienza del flusso d’aria accentua gli effetti di Asana . Si passa da Asana a Pranayama. La respirazione si fa più essenziale e il respiro conduce al silenzio, alla meditazione. Questo flusso è naturale: Asana – Pranayama – Dhyana. In conclusione, non bisogna mai dimenticare che lo Yoga corrisponde a uno stato. Questo si produce spontaneamente quando si pone fine alla dipendenza della mente dagli avvenimenti esterni. Lo Yoga ci doni mezzi per sperimentare questo stato quando si è mentalmente liberi, e in noi si manifesta una singolare dimensione di vita e di coscienza, una visione delle cose che non implica nessun sforzo. Dopo la pratica si osserva negli incontri e negli scambi che seguono un particolare stato interiore una migliore capacità d’ascolto. Quando si è sperimentato tutto questo gli effetti dello Yoga iniziano influire sulla vita quotidiana.

YOGASUTRA DI PATANJALI

Quando la mente è in pace lo stato di Yoga si produce”.

Ecco qua la grande definizione, quella che orienta le nostre ricerche e le nostre azioni nello yoga. Nel nostro cammino spirituale abbiamo bisogno di un orientamento, di principi che indichino un indirizzo, una direzione da seguire: questi non sono regole da seguire, ma qualcosa su cui riflettere e da mettere in pratica con consapevolezza e con un tocco leggero.

Come forma letteraria, ha la caratteristica di essere molto sintetico, scarno, e di contenere solo i principi essenziali, “le perle” appunto dell’insegnamento. Se consideriamo che la cultura indiana era prevalentemente orale, e che l’insegnamento era trasmesso nel rapporto diretto, vivo, tra insegnante e allievo, allora la sinteticità del testo favoriva la memorizzazione e la recitazione. Poiché il testo in sé è di difficile se non impossibile comprensione, era l’insegnante che forniva le chiavi interpretative all’allievo: esse erano commisurate alle capacità e all’esperienza dello stesso, così da consentire lo sviluppo organico e fluido della sua comprensione.La sua forza ed efficacia stanno proprio nell’intrinseca ambiguità e quindi nella ricchezza di significati che gli si può attribuire, nella sua capacità di canalizzare un insieme di contenuti che mantengono però coerenza.Come usanza nelle tradizioni indiane, prima di tutto si definisce il soggetto di cui si parla: negli Yogasutra i primi quattro aforismi della prima sezione forniscono un’introduzione diretta e chiara su cosa è lo Yoga.

atha yoga anushasanam (YS I.1)

ECCO L’INSEGNAMENTO DELLO YOGA

yogash chitta vrtti nirodhah (YS I.2)

YOGA ACCADE QUANDO L’ATTIVITÀ RIPETITIVA, REATTIVA DELLA MENTE SI ACQUIETA

tada drashtuh svarupe avasthanam (YS I.3)

ALLORA CIÒ-CHE-VEDE DIMORA NELLA SUA PROPRIA FORMA

vrtti sarupyam itaratra (YS I.4)

ALTRIMENTI CIÒ-CHE-VEDE È IDENTIFICATO NELL’ATTIVITÀ DELLA MENTE

Il secondo aforisma (yogash chitta vrtti nirodhah) è quello più citato in assoluto, ma forse anche quello meno compreso. Innanzitutto non può essere separato dai due aforismi che lo seguono, in quanto formano un’unica definizione.Se infatti iniziamo la nostra riflessione dal quarto aforisma (vrtti sarupyam itaratra), forse il tutto può diventare più chiaro: esso descrive il nostro stato abituale di con-fusione e di agitazione mentale in cui ci identifichiamo, ci perdiamo, ci appropriamo dei pensieri, delle emozioni e delle percezioni sensoriali che, di momento in momento, sono presenti nello spazio della consapevolezza. Chiunque abbia provato anche solo qualche volta a sedere in silenzio, in meditazione, ha constatato quanto è facile essere catturato dai pensieri e quindi distrarsi, dis-perdersi.

Il terzo aforisma (tada drashtuh svarupe avasthanam) ci dice che, nello stato di yoga, ciò-che-vede (drashtuh), cioè la consapevolezza, la facoltà di percepire conoscere, la presenza istantanea, la coscienza, chiamatelo come volete, rimane nella sua naturale chiarezza e spaziosità, senza offuscamenti, senza interferenze. Noi perdiamo coscienza non solo quando “fisicamente” perdiamo i sensi, ma perdiamo coscienza anche ogni volta che “mentalmente” ci appropriamo di ciò che non siamo, di ciò che non è nostro, cioè ci identifichiamo con pensieri, emozioni e percezioni sensoriali. Il problema quindi non è l’attività, il movimento (vrtti) della mente che si manifesta attraverso pensieri emozioni, ma l’abitudine, il condizionamento mentale a identificarci, ad appropriarci di, a perderci in ciò che è percepito-conosciuto. Detto in altri termini, il problema non è l’attività mentale in sé (vrtti), ma l’incapacità di differenziare, di discernere l’attività mentale dalla coscienza che ne è alla base, incapacità che porta a perdere la presenza e la spaziosità-libertà interiore.

Nello stato di yoga, la consapevolezza, pur continuando a fare il proprio “lavoro”, cioè percepire-conoscere, rimane libera e anzi funziona ancora meglio, con maggiore chiarezza, proprio perché rimane vividamente presente e libera. Giunti a questo punto, forse può essere più chiaro, per lo meno intuitivamente anche se non ancora esperienzialmente, il secondo sutra (yogash chitta vrtti nirodhah): Yoga, questo stato di presenza, chiarezza, libertà, non separazione, non dispersione, si manifesta, accade, quando cessa (nel senso di acquietarsi, di tranquillizzarsi) il movimento automatico, ripetitivo, reattivo della mente. Nirodha non vuol dire assolutamente bloccare, reprimere, controllare, come spesso, soprattutto in Occidente, si crede. Chi controlla? Cosa è controllato? Non ci sono due menti: la mente che si lega e si disperde è la stessa mente che si libera e ritorna presente. La mente che è sveglia e consapevole è la stessa mente che si distrae e si disperde.Vi prego di non interpretare la parola nirodha con “controllo”. Le vrtti si mettono in sospensione da sé, e non vengono controllate, eliminate o represse.Nirodha non implica la soppressione, la limitazione o il controllo, nella solita (e brutale) connotazione di quelle parole, ma una consapevolezza presente e vigile dei movimenti del pensiero nella mente, che è un tipo di quiete non comune.Semplificando un pochino, possiamo considerare due parametri: il numero e l’intensità di pensieri-emozioni da una parte, e la forza dell’indentificazione agli stessi dall’altra.

Allora possiamo dire che la pratica sinergica e unitaria di posizioni (asana), tecniche di espansione dell’energia vitale (pranayama) e meditazione (dhyana) conduce naturalmente a una diminuzione in termini di numero e intensità di pensieri emozioni e, parallelamente, si riduce il grado di identificazione con gli stessi: i pensieri e le emozioni possono continuare a sorgere ma non ci disturbano più, o ci disturbano di meno, e siamo in grado di dimorare in una condizione di consapevolezza spaziosa, di presenza silenziosa con più continuità e naturalezza.Il vangelo dello yoga suggerisce non un ritiro o una fuga dal mondo, ma l’abbandono del condizionamento mentale che crea una divisione tra “me” e “il mondo” (incluso il mondo delle esperienze psicologiche). La meditazione è la ricerca vigorosa della vera identità del “me”, non un gioco di prestigio psichico né una tecnica di rilassamento profondo. Da questo punto di vista, le categorie fondamentali dello yoga (citta, vrtti e nirodha) assumono un carattere completamente diverso da quello che prevale nella mente di molti praticanti dello yoga: è difficile tradurre citta e vrtti, e lo studente deve scoprire il loro significato in se stesso mentre il messaggio di Patanjali satura il suo intero essere.

Seguite sempre il vostro filo dello yoga